Ricordo di mio padre, Gaetano Scifo
Il 29 luglio 2013, lunedì di San Calogero, si è
spento Gaetano Scifo, da tutti conosciuto come “u zi’
Tanu”, o meglio, “ u zi’ Tanu bossu”, come usa
dalle nostre parti. Forse proprio perché è avvenuto in un
giorno particolare per la nostra comunità, tante persone si sono
scusate per aver saputo la notizia soltanto dopo.
Non voglio certo fare un altro degli “Elogi degli uomini
illustri”, mio padre non rivestiva un ruolo importante o di
prestigio, era una brava persona, semplice, onesta. Non conosceva il
gossip: non ho memoria di un solo episodio in cui abbia espresso
giudizi su qualcuno o ci abbia informato di fatti che, una volta di
dominio pubblico, appariva chiaro, lui conosceva già. Era
così per indole ma, anche se avesse voluto, non aveva il tempo
di fare chiacchiere inutili perché era un gran lavoratore che
dopo il turno alla Montecatini, andava in campagna a fare il contadino
per passione o a costruire qualcosa per non stare con le mani in mano:
realizzava ciò che gli serviva, fossero gabbie per conigli o
attrezzi vari, riciclando qualsiasi cosa. La sera poi, una breve
uscita, qualche pagina di cruciverba e una sigaretta prima di andare a
dormire.
Questo non vuol dire che fosse un solitario, anzi, era simpatico,
“di compagnia”, con la battuta sempre pronta. Qualcuno ha
forse pensato che la motivazione del suo attaccamento al lavoro fosse
l’accumulo di denaro o di beni, ma non è la verità:
era generoso e non rifiutava il suo aiuto a chi aveva bisogno di lui,
sempre, anche dopo aver avuto delle brutte esperienze. Il continuare a
fidarsi rasentava l’ingenuità e si scontrava con la nostra
prudenza forse eccessiva, diventando oggetto di discussioni vivaci
quanto inutili. Col tempo ho capito che il suo comportamento nasceva
proprio dalla libertà dal possedere.
“La mia parola è un atto” amava dire; credo che
questa frase rendesse bene quanto era importante per lui mantenere fede
alla parola data, anche quando le circostanze non erano più
favorevoli al suo interesse. Di poche parole, non amava esternare i
propri sentimenti: appariva duro, ma un occhio attento coglieva la sua
sensibilità in uno sguardo, un gesto, un’espressione.
Certo aveva tanti difetti: era testardo, irascibile e autoritario e da
bambina lo temevo un po’. Aveva una grande forza fisica e non si
accorgeva che poteva far male con la sua vigorosa stretta di mano o col
suo abbraccio.
Infaticabile, forte … sembrava indistruttibile e, di fatto, lo
è stato fino a qualche anno fa, quando ha dovuto accettare il
bastone, a fatica, perché legato all’idea della vecchiaia
che incombeva. Poi, di colpo, nel febbraio dell’anno scorso,
è tornato bambino, bisognoso di tutto. Una quercia abbattuta!
Sono cambiate la sua vita e quella di tutta la famiglia: nuovi ritmi,
nuove esigenze, nuova organizzazione del tempo e dello spazio
domestico; da allora tutto ruotava intorno a lui e ogni piccolo
progresso nell’autonomia costituiva una grande conquista e una
grande gioia. Nonostante tutto non ha perduto l’umorismo e
l’ironia e, tra una ricaduta e l’altra, finché le
forze glielo hanno consentito, riusciva persino a farci ridere e a
stupire le persone che lo venivano a trovare.
Sorprendentemente è sparita la paura che mi attanagliava
all’idea di una situazione simile: è proprio vero, Dio non
ti dà la forza in modo preventivo ma solo quando ne hai bisogno;
così riuscivo a superare fatica, pregiudizi, repulsione, il mio
essere impressionabile. Ho iniziato ad avere dimestichezza con le
ambulanze, le corse in ospedale, i turni di notte, i disagi e le
manchevolezze della nostra sanità, gli inutili suggerimenti dei
medici di portare mio padre in un luogo di lunga degenza. I sacrifici
erano tanti, le rinunce anche ma, come mi ha detto una voce fuori dal
coro tra gli addetti ai lavori “E' l’amore che muove il
mondo!”. Anche questo medico aveva vissuto la mia stessa
esperienza con suo padre. E, in effetti, papà faticosamente e
lentamente migliorava con l’aiuto del fisioterapista, un ragazzo
paziente, umano e competente, e con le nostre attenzioni e il nostro
affetto. Fino all’ultima volta, il tredici di luglio, quando
l’ennesima ricaduta di un organismo già ripetutamente
provato ha lasciato poche speranze di ripresa.
Ha fatto male vedere il personale sanitario poco
interessato al “caso”. “E' il territorio che deve
gestirlo, il 118 potrebbe servire a un bambino, i ripetuti ricoveri
tolgono spazio a soggetti più giovani, dopo alcuni giorni di
degenza il SSN non paga più le prestazioni, che vita è
quella di suo padre, a 86 anni, in queste condizioni?, lei è
solo un egoista che vuole farlo vivere a tutti i costi!”: mi sono
sentita dire. Mi sembrava di vivere l’incubo di un film americano
del filone medico: ma … in Italia, il diritto alla salute non
è garantito a tutti? Qui non siamo negli Stati Uniti, dove
rischi di morire se non ti puoi permettere l’assicurazione
sanitaria … oppure ci siamo “americanizzati” anche
in questo? “Mio padre è vivo, capisce e reagisce agli
stimoli, evidentemente non è ancora giunta la sua ora e fino a
quel momento, in qualsiasi condizione, conserva la sua dignità e
dobbiamo fare tutto il possibile per prendercene cura!”
ribattevo. E' tristissimo e demoralizzante costatare
l’aberrazione della società moderna che svuota di senso la
sofferenza, che certo fa paura a tutti, e calpesta il valore della vita
stessa, protesa com’è a osannare l’efficientismo e
la produttività. “Signore, non farlo soffrire! E se
è la tua volontà, dacci il coraggio di lasciarlo andare e
la consolazione che hai promesso a chi confida in Te!”: questa la
mia preghiera nei quindici giorni che seguono. Mio padre si è
spento a casa subito dopo la visita di uno specialista, assistito
amorevolmente da noi familiari, mentre fuori le strade continuavano a
essere invase dal rumore e dal clima della festa più importante
del paese. La sua eco, con la banda, gli spari, i giochi pirotecnici,
l’aveva inesorabilmente raggiunto nel suo letto di dolore negli
ultimi giorni e aveva impresso nei suoi occhi un’espressione
ancora più sofferente. Chi ha conosciuto mio padre sa quanto
fosse legato al nostro santo e proprio prima che finissero i
festeggiamenti in suo onore, il Signore l’ha chiamato a
sé. Dio, però, è padre ed è fedele e ci ha
dato tanta forza nell’affrontare il momento del distacco e tutto
quello che è seguito.
Nel corso di questi mesi, non ho potuto fare a meno di interrogarmi sul
decadimento fisico, sulla sofferenza, sulla morte: solo con la luce
della fede, credo, si possono cogliere i frutti del dolore che abbiamo
vissuto. Il carattere di mio padre è diventato più dolce,
il bisogno di pregare più sentito, con ansia aspettava il
rosario delle sei e il ministro che gli portava l’Eucaristia. Io
mi sono legata di più a lui e, nello stesso tempo, ho cercato di
dare senza aspettarmi nulla in cambio, di vedere e toccare in lui
Cristo sofferente e di riporre con più slancio la mia fiducia in
Dio; tutta la famiglia ha rinsaldato ancor più i legami per far
fronte alle mutate necessità.
Ed è ancora la fede che, pur nel dolore lacerante, sostiene e
grida che tutto non può finire con un corpo vuoto su un letto ma
ci deve essere, anzi c’è la Vita dopo la vita!
Perché ho scritto questo pezzo? Sentivo che … te lo dovevo, papà!
Concetta Scifo