Campofranco, convegno su San Calogero per saperne di più - 2

Pubblichiamo, di seguito, la seconda relazione dall’esperto demo-antropologo Antonino Frenda, tenuta domenica 18 marzo nel salone Giovanni Paolo II. La relazione del liturgista don Carmelo Carvello è stata pubblicata nel numero precedente.

 

Uno sguardo etnografico su patrimonio religioso tradizionale e promozione turistica locale.

L’occasione di questo significativo incontro sulla festa di San Calogero a Campofranco mi da, intanto, la possibilità di rielaborare dati e fatti lontani di appena pochi anni, ma che mi si ripresentano con una insistente ricorsività, vicina ad un tempo paragonabile “al ritorno delle sabbie al ritirarsi delle maree”, per usare una felice espressione del mai troppo ricordato Carlo Levi. Nel caso campofranchese in particolare, devo questo “ritorno” al Presidente della Pro-loco Calogero Termini, con il quale ho condiviso momenti salienti della mia ricerca, oltre a figure non secondarie avvicendatesi nella mia ricerca come Carlo Petix il cui contributo intellettuale e umano voglio e devo qui ricordare. “Ritorno” sul campo dunque (così considero la giornata di oggi) che ogni ricerca folklorica auspica fervidamente, in particolare, quando essa si rivolge allo studio della sfera del sacro e dei simboli rituali. Non credo di esagerare affermando come questo fervore emerge prepotentemente dal contesto storico attuale, lacerato a più riprese da incessanti desacralizzazioni dei valori religiosi sia “ufficiali” che “folklorici” eppure chiamato a fronteggiare un diffuso senso di confusione e immiserimento culturale che rischia pericolosamente di squalificare la dimensione religiosa dell’identità, della memoria e del ricordo. A questo proposito, la ricerca etnografica del fatto rituale e religioso non può che configurasi, per intenderci, tramite una mediazione culturale tra i Comuni, le Amministrazioni, le Confraternite, i Comitati, insomma, quell’universo antropologico che senza incorrere in riduzioni scientifiche possiamo definire locale. In questa mediazione, è stato osservato, la riconsiderazione critica tra obiettivi scientifici e l’esperienza religiosa locale, frutto simultaneo degli esiti laici e/o liturgico-pastorali concorre alla chiarificazione della sacralità festiva e delle identità locali. A partire da questa obbligatoria premessa, cercherò di esporre in estrema sintesi i dati raccolti relativi alle forme simbolico-rituali tradizionali (feste, pani ex-voto e pellegrinaggi) e di tentarne una lettura alla luce del tema stabilito sul rapporto tra patrimonio rituale tradizionale e promozione turistica sostenibile.  
I.                   Uno sguardo etnografico: feste e simboli rituali.
Apparati festivi e pratiche rituali in onore di San Calogero si riscontrano numerosi nella Valle del Platani. Il culto, diffusosi nell’area nella seconda metà del XVIII secolo si snoda variamente tra ricorrenze liturgiche e celebrazioni propriamente festive. Tratto distintivo delle feste rimane la presenza di particolari pani votivi offerti al Santo per sciogliere un voto o ringraziarlo di un’avvenuta guarigione. A Delia, Milena e San Cataldo, nonostante in passato il culto del Santo venisse celebrato con delle processioni, si attesta ancora per il 18 Giugno l’uso di benedire ‘u pani di San Calò (il pane di San Calogero) o i mraculi (i miracoli) che nel Nisseno designano specificatamente i pani anatomorfi. Più strutturato, anche se sostanzialmente identico, l’apparato festivo di Campofranco e della vicina Sutera. A Campofranco l’11 Gennaio viene condotto in processione San Caloriu lu poviru (San Calogero povero), in ricordo del terremoto che colpì la comunità alla fine del ‘600. Come per il San Calogero “invernale” di San Salvatore di Fitalia (Me) e Naro (Ag), anche a Campofranco la figura del Santo viene ricondotta ad una “povertà” indice di un orizzonte di crisi  volta soprattutto a rimarcare l’assenza di offerte di frumento e, segnatamente, dei pani votivi, la cui presenza invece eccede vistosamente l’ultima domenica di Luglio nelle celebrazioni del San Caloriu lu riccu (San Calogero ricco) del quale persistono ancora la memoria della coincidenza della festa con la fine dei lavori del ciclo agricolo tradizionale. La domenica mattina il fercolo di San Calogero viene trasportato dalla Chiesa di San Francesco e deposto al centro della piazza antistante per ‘a spiddruta (la spartizione) di pupi che possono raggiungere anche i due metri di altezza, in base alla “potenza” del miracolo ricevuto dal Santo. Và ricordato come questo aspetto di ostentazione e abbondanza viene da alcuni anni “supportato” dalla Pro-Loco di Campofranco, la quale allestisce un stand espositivo con numerosi pupi distribuiti alla fine delle celebrazioni ai visitatori ai fini di promozione turistica ed enogastronomica delle tradizioni locali  del territorio. Questo aspetto però non ha sostanzialmente modificato l’atteggiamento cerimoniale tradizionale in merito alle offerte: i portatori infatti si configurano e continuano ancora a configurarsi come gli operatori rituali di riferimento per la comunità, i soli deputati a prendere e manipolare i pupi, che li accostano a San Calogero e “li spiddrinu comu sa fattu siempri!” (li distribuiscono come si è fatto sempre!). Questa lapidaria ma incisiva testimonianza riferita da un giovane muraturi campofranchese trova esplicitamente conferma nel fatto che l’intero iter processionale del fercolo, sino al rientro del Santo in Chiesa intorno alle 24:00, viene scandito da continue soste dove l’offerta dei pupi viene reiteratamente eseguita nella modalità “forte” alla quale si riferivano le parole del portatore.
  II.                Pupi, panuzzi e mraculi.
Non è superfluo ricordare come insieme ad altri simboli rituali vegetali o ignei il pane, nel ciclo delle festività tradizionali siciliane, si configura contemporaneamente quale codice alimentare e veicolo di scambio simbolico tra uomini e sfera della sacralità. Nello specifico, per le feste di San Calogero si può affermare che la presenza di offerte granarie, la manipolazione, l’offerta e il consumo privato o pubblico di particolari pani votivi lasciano trasparire una continuità con analoghi apparati cerimoniali seppur diversamente collocati nel calendario rituale contadino: basti pensare alla festa del SS. Crocifisso di Castel di Bilici dove il 3 Maggio i fedeli portano in pellegrinaggio ex voto di pane anatomorfi. Generalmente detti panuzzi, pupi (pupi) nell’Agrigentino o mraculi (miracoli) nel Nisseno, i pani di San Calogero riproducono l’intero corpo o una delle sue parti guarita per intervento del Santo taumaturgo: benedetti in chiesa o di fronte ai santuari, questi ex voto di pane si configurano pertanto con una particolare modalità offertoriale che rimanda immediatamente a una visione del mondo connessa alle attività agricole e sono indicativi dell’evidente, intimo rapporto, tra panificazione ed una esperienza religiosa ascrivibile ai tempi e ai ritmi del calendario cerimoniale agrario siciliano, dove, come sottolinea incisivamente I. E. Buttitta ne I morti e il grano «attraverso l’offerta primiziale al Santo, a ringraziarlo per il buon esito del raccolto, si intende garantire il benessere dei singoli devoti e della comunità». Non sempre comunque i pani di San Calogero vengono cerimonializzati con modalità conformi al devozionalismo ecclesiastico. I panuzzi ad esempio, diffusissimi nell’agrigentino, vengono lanciati per lo più dai balconi al passaggio del corteo processionale. Ad Agrigento, l’uso di lanciare i panuzzi a San Calogero nella seconda domenica di Luglio, continua ancora oggi a creare divergenze assai indicative tra i portatori della vara e le autorità civili ed ecclesiastiche. A Campofranco e a Milena (Cl), ad esempio, si realizzano pupi di San Calogero in proporzione alla potenza del miracolo ricevuto: questi pupi, esposti agli ingressi delle abitazioni o dei negozi, accompagnati in alcuni casi da coltelli pronti per l’uso, dopo la benedizione, vengono sfregati sul simulacro, tagliati e consumati. Sul valore offertorio-sacrificale e patrofagico dei pani ex-voto di Campofranco appare significativa una testimonianza che ho raccolto in Chiesa da una accorta devota: u pani è San Caloriu.
III.             Pellegrinaggi.
Decisamente ricco e articolato si rivela il sistema pellegrinale che interessa il territorio di Campofranco e che, nella festa di San Calogero, affiora come una delle forme devozionali di maggiore interesse etnografico. Va ricordato a questo proposito come il pellegrinaggio, in area mediterranea e non solo, si attesta quale uno degli atti rituali di  maggiore interesse antropologico-religioso in quanto tratto strutturale ancora operante del culto dei santi siciliani, erede di peregrinazioni rituali ancora più antiche, riconducibili al culto delle reliquie nel Mediterraneo Tardo Antico e Cristiano come anche a rinnovate necessità storico-religiose di sacralizzazione degli spazi rurali in gran parte dell’Isola durante l’Età Moderna. Nello specifico, va osservato come il sistema di pellegrinaggi che confluisce tra Campofranco e Naro presenta ancora dei tratti arcaici riconducibili all’universo religioso contadino in netta opposizione alle pratiche fortemente urbanizzate che caratterizzano il culto di San Calogero ad. es. in area agrigentina. In passato, l’ultima domenica di luglio i pellegrini di Acquaviva Platani raggiungevano m’piduni la vicina Campofranco attraversando  la trazzera di la guardiola, strada di campagna che collega i due paesi sostando lungo la chiesetta dell’Annunziata: questo pellegrinaggio avviene ancora oggi dove i devoti offrono i pupi per frali benedire a Campofranco. A questo proposito, va ricordato il viaggiu a San Calò che diparte da Milena e che si svolge la notte precedente ai festeggiamenti: il pellegrinaggio milenese si caratterizzava inoltre, oltre che per la sua dimensione notturna, anche per la recita di rosari e altre forme orali devozionali che sarebbe opportuno raccogliere sistematicamente. Tratto distintivo dei pellegrinaggi è indubbiamente l’offerta dei pupi anatomorfi che evidenziano contemporaneamente la natura gratulatoria, oltre che miracolistico-taumaturgica nei confronti del Santo Eremita.
  IV.             Promozione “turistica” e religiosità locale. Alcune osservazioni conclusive.
Da questo breve sguardo etnografico sulle ritualità calogeriane emergono chiaramente dei tratti di continuità e di persistenza con le forme rituali tradizionali attestate sino ad un non lontano passato. Indubbiamente, le trasformazioni avvicendatesi negli ultimi anni metterebbero attenzione per ricostruire in maniera attendibile le pratiche e i simboli tra memoria e contingenza. Ancora, una ricostruzione storico-etnografica più ampia, impossibile qui e ora, deve tenere conto non solo delle attuali condizioni del panorama rituale ma anche dei complessi e articolati rapporti storico-religiosi del culto del santo in relazione ai suoi aspetti liturgico-agiografici e al nesso che qui preme attenzionare tra attività liturgico-pastorale e antropologia religiosa locale. Le varie iniziative di promozione turistica innestatesi nei contesti festivi, si è visto, coesistono con la festa, seppur con qualche inevitabile contrasto. Infatti, è in corso da anni ormai una trasformazione delle ritualità festive tanto che non sembra azzardato per alcuni affermare come sagre e turismo siano ormai il “futuro” della tradizione. Occorre però, a mio avviso, stemperare eccessi sempre possibili e individuare politiche locali adeguate per evitare il rischio, spesso invisibile, dello svuotamento di senso di riti e feste. Valorizzare, salvaguardare e tutelare non sono mere esigenze di mercato o, peggio, opachi e confusi tentativi di ricostruzione o invenzione della tradizione: significa, intanto, comprendere come simboli e segni rituali persistano in quanto patrimonio culturale specifico di un luogo, rimarcarne le differenze, metterlo in sistema grazie ad azioni interne alla comunità la quale è la sola custode, nel bene o nel male, di quella identità che nei riti e nei simboli  garantisce a se stessa e agli altri, un ordine del mondo e del sacro.

Antonino Frenda