La Pietà Popolare oggi, una ricchezza da valorizzare

di Salvatore Carvello

La presente riflessione vuole essere solo un contributo alla comprensione del fenomeno della pietà popolare, perché si pone solo e specificamente in una prospettiva ecclesiale.

 

1.                  PIETA’

Parlando di «pietà popolare», precisiamo che col termine « pietà » intendiamo la manifestazione concreta della religione cristiana, secondo i vari e differenti contesti socioculturali, religione vissuta nella quotidianità dell'esistenza personale, familiare e comunitaria e caratterizzata da varie pratiche e formule che esprimono l'amore filiale verso Dio e la devozione verso Gesù, la Vergine Maria e i santi. Convinzioni, sentimenti, segni, parole, gesti sono espressioni vive e vivaci della “pietas“ cristiana, intesa non come religione soggettiva, cioè sentimentale e intimistica, né come una forma deteriore e dege­nerata della fede, ma come cosciente e integrale rapporto con Dio che si rivela, vive e opera continuamente nella storia concreta di ogni giorno. Preferiamo inoltre utilizzare il termine « pietà » e non quello di «religiosità», non perché etimologicamente l'uno sia diverso dall'altro, ma perché, a nostro avviso, «pietà» dice un riferimento immediato e specifico alla coscienza religiosa cristiana e quindi alla Chiesa come fatto istituzionale, invece « religiosità » dice più generalmente un rapporto alla natura costitutivamente religiosa di ogni uomo che si esprime in molteplici e diversi mezzi più confacenti per l'affinamento del proprio spirito, e ciò senza alcun rapporto esplicito con l'esperienza tipicamente cristiana e la realtà istituzionale della Chiesa.  Già Paolo VI nell'esortazione apostolica del 1975 Evangelii Nuntìandi, (n. 48), dopo averne messo in luce gli aspetti più significativi, si pronuncia per l'espressione “pietà popolare”, cioè religione del popolo, piuttosto che per “religiosità”. Si potrebbe quindi dire che “pietà” esprime la specificità cristiana ed ecclesiale della religiosità.

Posto ciò, è estremamente facile ed evidente cogliere la differenza sia storica che concettuale della pietà con il folklore, con la magia e con la superstizione.

 

2.                  PIETA’ E FOLKLORE

Il Direttorio per la Liturgia e la Pietà Popolare, (promulgato per la diocesi di Caltanissetta nel 2006) afferma a proposito: “La Pietà Popolare è una eredità preziosa da valorizzare, ma va sottratta ad ogni forma di devianza e di degenerazione, di stampo magico o superstizioso. Nelle feste religiose e patronali si registra talvolta una eccessiva intromissione di enti civili, i quali rischiano di trasformare la Pietà Popolare in manifestazione culturale, sociale o folkloristica, svuotandola di quello specifico spirito di fede che solo la Chiesa può garantire” (n. 130).

            Infatti il folklore, di per sé, richiama soltanto e semplicemente  la storia del costume e della mentalità, rimanendo legato alle forme ormai superate della società e dell'economia del passato, soprattutto di un passato legato al mondo agro-pastorale.         In altri termini, il folklore è un residuo di usanze collettive o individuali strettamente connesse con le modalità tipiche di vita, azioni e produzione di una societas ormai tramontata, la cosiddetta civiltà materiale. Evidentemente anche il folklore religioso o, meglio, che rievoca pratiche religiose del passato, è una realtà puramente culturale che non richiede un atto di fede, cioè un’apertura fiduciosa e confidente a Dio, né prevede un chiaro riferimento all’istituzione ecclesiale. Tante attuali manifestazioni di folklore religioso sono di fatto completamente desacralizzate e coltivate, e vengono riprese e conservate in vita da soggetti non ecclesiali (o anche ecclesiali)  con intenti di mera valorizzazione culturale o a fini di attrazione talora solamente turistica. Anche questi eventi folkloristici  privi di un reale contenuto di pietà, cioè non miranti a una relazione di amoroso riferimento a Dio, alla Vergine o ai santi e quindi non rivelativi di un’adesione autenticamente ecclesiale, non possono ritenersi pietà. A tal proposito, è ancora assai illuminante quanto si legge nel Direttorio per la Liturgia e la Pietà Popolare:”Per la sua natura essenzialmente dinamica, la Pietà Popolare non può cristallizzarsi in forme stereotipate e puramente ripetitive di manifestazioni tradizionali, al di fuori del processo di rinnovamento, che impegna costantemente la Chiesa nel suo cammino storico. Pertanto, occorre verificare, con vigile attenzione, la sua effettiva aderenza non solo alle radici e motivazioni originarie, ma anche, e soprattutto, alle esigenze più autentiche della spiritualità attuale, affinché si eviti ogni pericoloso equivoco tra essa e il folklore” (n. 134).

 

3.                  PIETA’ E MAGIA

Chiarita questa differenza, è necessario comprendere che la pietà differisce ugualmente dalla magia, perché mentre la magia presume di piegare le forze del divino, inteso come immanente nel mondo, a scopi sia benefici che malefici (magia bianca e magia nera), la pietà realizza una relazione umile con Dio, a cui ci si affida, di cui ci si fida e in cui si confida. In tal senso, la pietà fa riferimento a Dio come essere trascendente e sovranamente libero. E’ dunque evidente che tra pietà e magia non c’è e né può esserci continuità o gradualità, ma radicale e assoluta discontinuità, un salto qualitativo che distanzia inequivocabilmente l’una dall’altra.

Scriveva il compianto mons. Cataldo Naro: “La magia non è un gradino più basso della pietà. E la pietà non è la sublimazione della magia. Si tratta anche qui di una differenza non solo concettuale ma concretamente percepibile per via descrittivo-fenomenologica. Altro è il fenomeno magico e altro è quello religioso. Si danno certo delle somiglianze (ad es. la struttura sociale del rito e l'aspetto deprecatorio) ma si, danno anche più chiare e più nette dissomiglianze (ad es. l'umiltà della richiesta o la presunzione del comando. È vero che si danno anche casi di ibridismo magico-religioso, di incontro tra elementi magici e culto religioso, non solo a livello soggettivo o di intenzionalità ma anche nel senso di partecipazione alla mentalità di tipo magico di uomini di Chiesa e di comunità ecclesiali e, perfino, di coinvolgimento nel rito magico di pratiche del culto religioso. Ad una attenta analisi descrittiva è però possibile cogliere la sostanziale diversità dell’atteggiamento magico da quello religioso, pur nella constatazione della profonda ambiguità e dell'estrema complessità dell'agire religioso umano. E’ possibile cogliere, quanto il rito magico, con la sua carica di presunzione e il suo intento utilitaristico, differisca dall'atteggiamento di pietà, aperto umilmente alla gratuità di Dio , e sempre, implicante, in qualche modo, l'offerta di se stessi, il sacrificio della propria volontà”.

Se è chiara la differenza tra pietà e magia, lo è ancora di più la distanza e la differenza con la superstizione che va intesa come pura osservanza di divieti e pratiche motivati da un irrazionale e inspiegabile timore di imprevisti negativi o eventi tragici: ad es. evitare di viaggiare certi giorni della settimana o del mese, fare scongiuri in certe situazioni particolari, utilizzare oggetti ai quali si attribuisce una peculiare carica di positività o di negatività, ecc… La superstizione porta a pensare e ad agire muovendo da un’assioma: “non è vero, ma ci credo!” E ciò evidentemente si distanzia enormemente dalla pietà che invece si basa essenzialmente sulla fede e manifesta un rapporto personale del credente con Dio e con i santi, senza timore e senza irrazionalità come avviene invece per l’uomo superstizioso. Osserva dunque giustamente il già citato Direttorio per la Liturgia e la Pietà Popolare: “Bisogna sempre evitare il pericolo di mescolare la sana religiosità con atteggiamenti superstiziosi, del tutto incompatibili con le tradizioni e le forme di pietà popolare” (n. 136).

 

4.                  POPOLARE

Anche il termine « popolare » va rettamente compreso nella sua specificità. Si tratta del popolo di Dio, inteso non come un'entità primariamente sociologica, che può facilmente scadere nella lettura riduttiva del marxismo, ma popolo di Dio secondo l'accezione che ritroviamo nella Sacra Scrittura e nei documenti del Vaticano II. Soltanto una lettura superficialmente gramsciana poteva far pensare che l’aggettivo “popolare” in riferimento alla pietà potesse implicare connotazione di classe e richiamasse dislivelli culturali, cioè una sorta di contrapposizione e di distanza nonché di separazione tra l’élite aristocratica o intellettuale e la massa degli umili e degli incolti. In realtà, ad un’indagine storico-teologica non è assolutamente dato di rilevare alcuna diversità in uno stesso ambito ecclesiale tra pietà del nobile o del borghese e del contadino o artigiano. Il popolo di Dio è uno e uno solo, anche se evidentemente questo universale popolo di Dio va cercato nel particolare in cui si concretizza, cioè in un tempo e in un luogo dove storicamente è presente. « Popolare » dunque può essere tradotto con « locale » e, di conseguenza, la pietà popolare è quella propria di una determinata Chiesa particolare. Esiste dunque la pietà popolare della Chiesa nissena e, in qualche modo, la pietà popolare della comunità ecclesiale di Campofranco.

In tal senso  la  pietà popolare ci fa cogliere nel suo esplicarsi e nel suo prolungarsi nel tempo e nello spazio il rapporto dinamico tra tradizione e rinnovamento in una Chiesa locale. Annota ancora il  Direttorio per la Liturgia e la Pietà Popolare:La Pietà Popolare va vista nella prospettiva dell'incontro felice tra l'opera di  evangelizzazione e la cultura. In misura in cui non esprime o realizza questo incontro, non media più un'autentica esperienza religiosa. È di estrema importanza preservare o purificare le manifestazioni esistenti da alcuni pericoli: l'insufficiente presenza di elementi essenziali della fede cristiana, quali il significato salvifico della Risurrezione di Cristo, il senso dell'appartenenza alla Chiesa, la persona e l'azione del divino Spirito; la sproporzione tra la stima per il culto dei Santi e la coscienza dell'assoluta sovranità di Gesù Cristo e del suo miste­ro; lo scarso contatto diretto con la Sacra Scrittura; l'isolamento dalla vita sacramentale della Chiesa; la tendenza a separare il momento cultuale dagli impegni della vita cristiana; la concezione utilitaristica di alcune forme di pietà; la utilizzazione di segni, gesti e formule, che talvolta prendo­no una importanza eccessiva, fino alla ricerca dello spettacolare; il rischio, in casi estremi, di favorire l'ingresso delle sette e portare addirittura alla superstizione, alla magia, al fatalismo o all'oppressione”. (n. 132)

A conclusione di questa nostra riflessione, non si può non condividere quanto ancora il Direttorio per la Liturgia e la Pietà Popolare fa rivelare: “Si proceda con prudenza e spirito di carità, ma allo stesso tempo con fermezza, per purificare la Pietà Popolare dalle espressioni non consone, affinché le nostre popolazioni, anche in relazione alle mutate condizioni socio-culturali, crescano veramente nella fede, nella speranza e nell'amore” (n. 136).

 

Nel prossimo numero pubblicheremo l’intervento su San Calogero del demo-antropologo dott. Antonino Frenda.