Saluto di commiato di don Massimo Naro, fratello


Amiamo il nostro ministero, il nostro lavoro, ciò per cui il Signore ci chiede di spenderci, amiamo la nostra gente, il seminario, la nostra Chiesa Aldo, fratello e maestro.
Sì: anche maestro. Vero fratello, vero fratello maggiore. E, perciò, capace di consigliare, di comunicare esperienze, di indicare la strada, di additare le mete, di insegnare come discernere la volontà di Dio. Hai interpretato e vissuto il tuo essere fratello maggiore anche come espressione di un magistero così intenso: con sicurezza ma senza sicumera, senza costrizione, senza voler vincere, ma piuttosto per convincere. E, infine, per aiutare i fratelli minori a fare il passaggio più importante: dalla convinzione alla consapevolezza, da ciò che possiamo pensare e decidere rimanendo però pur sempre esposti al rischio del tornacontismo e dell’arbitrio, a ciò che dobbiamo sapere e accettare perché pensato e deciso dal Signore.
Cosa, dunque, hai insegnato a noi tuoi fratelli più piccoli, ad Antonio, a Maria Rosaria, ad Angelo, a Eugenio, a me e a tutti gli altri innumerevoli tuoi fratelli e discepoli, al di là del sangue che scorre nelle vene e al di là di ogni dato anagrafico? E cosa hai insegnato persino a nostro padre, quando era ancora in mezzo a noi? E alla nostra mamma, anche lei, in questo senso figlia del suo figlio?
Tante cose ci hai insegnate: troppe, così numerose che la memoria diventa grondante come una spugna inzuppata. Io sento ora e qui di ricordare, di far ri-passare nel cuore di chi ha cuore, almeno il tuo insegnamento più bello e più importante: ci hai insegnato il valore e la bellezza dell’amore.
Se rileggo i tuoi scritti pastorali, quelli lunghi e quelli brevi, quelli redatti con pazienza e travaglio - la stessa pazienza e lo stesso travaglio che ci vuole per concepire e dare alla luce -, ma anche quelli approntati in estemporanea, velocemente e occasionalmente, come anche i tanti bigliettini che lasciavi sparsi per casa, su cui annotavi i tuoi appunti, sempre mi vedo comparire davanti agli occhi la tua esortazione principale: amiamo. Amiamo il nostro ministero, amiamo il nostro lavoro, amiamo ciò per cui il Signore ci chiede di spenderci, amiamo la nostra gente, amiamo il seminario, amiamo la nostra Chiesa.
Sì: ci hai insegnato soprattutto l’amore da nutrire per la Chiesa; l’amore da scambiarci reciprocamente, se è vero che noi siamo la Chiesa; l’amore da cui lasciarci investire da Dio, se è vero che noi siamo la Chiesa di Dio.
Ma la lezione dell’amore è difficile. È difficile da insegnare, perché l’amore vero non è mellifluo, non è retorico, non è a buon mercato, rimane inevidente, mai scontato, sempre a caro prezzo, per risultare efficace deve essere intelligente, deve cioè vedere e leggere dal di dentro, andare oltre le apparenze, aggirare le facciate, per quanto penoso e doloroso sia questo accorgersi di ciò che dietro vi si annida e vi si nasconde. E, così, l’amore vero rimane un’impresa ardua. Tu lo hai saputo bene: ma hai preferito non sottrarti all’immane fatica di insegnare questo amore vero, serio, difficile, faticoso.
L’amore, poi, è difficile anche da imparare: perché esso è esigente, perché è urgente, spinge, strattona, è un pungolo insistente: l’indifferenza, la pavidità, le lentezze nel comprendere e nell’agire non gli sono congeniali. E rischia così, l’amore vero, di rimanere un’occasione perduta. Per evitare questo pericolo, mortale per tutti noi, tu ci hai voluto insegnare l’amore alla Chiesa mettendoti in mezzo a noi, hai voluto apprenderlo insieme a noi, alla scuola dei santi di Dio, di cui sempre sei stato amico. E perciò non hai mai detto con presunzione tanto ingenua quanto stolta «io amo la Chiesa», e non hai scaricato il fardello sugli altri, rifuggendo di dire soltanto «amate la Chiesa». Hai detto piuttosto, in pubblico e in privato, hai scritto, hai pregato: «amiamo la Chiesa».
Sì, Aldo, questo sempre ci hai detto. In ogni maniera, con ogni possibile e immaginabile linguaggio, con il tuo solito stile, che faceva diventare un gesto comune qualcosa di unico e di speciale.
Regalare un libro, per esempio.
Aldo tu mi hai insegnato non a scegliere i libri, a leggerli, a catalogarli. E neppure mi hai insegnato soltanto e semplicemente a farli i libri, a scriverli, a curarne la pubblicazione, a vederli nascere dal computer alla tipografia. Mi hai insegnato anche, partecipandomi l’arte del libro, ad amare.
Ogni libro che spedivi a chiunque, ad amici fraterni come pure a semplici conoscenti, era accompagnato da una tua parola, da un tuo cordiale saluto vergato di tuo pugno, a volte anche solo dall’indirizzo sulla busta, che volevi sempre e testardamente scrivere a mano, per far capire al destinatario che lo avevi presente nel cuore e non solo nell’indirizzario. Apprendere da te l’arte del libro significa per me, davvero, aver appreso l’arte dell’amicizia, lo stile dell’amore. Ogni libro che mi chiedevi di aiutarti a fare, al Centro Studi Cammarata e al Centro Studi Intreccialagli, come pure in Facoltà Teologica a Palermo, era come una rete di contatti, di relazioni, di confronti, di collaborazioni: era come darsi un appuntamento con tanti amici, con quelli che avrebbero scritto il libro, con quelli che lo avrebbero edito, con quelli che lo avrebbero stampato, con quelli che lo avrebbero letto e presentato, con quelli che lo avrebbero ricevuto in dono da te. E sempre da tutti, se essi avevano il cuore per vedere e ascoltare questo tuo amore, mi giungeva puntuale la grata conferma che il tuo messaggio d’amicizia era stato recepito.
«Dillo tu alla mamma»: così sempre mi dicevi quando c’era qualcosa d’importante, ma anche di doloroso, da doverle comunicare. Così è stato quando il Signore ti ha fatto vescovo. E così è stato quando ti sei sentito male. E così ho fatto, infine, venerdì pomeriggio. Così voglio fare di nuovo stasera, a nome tuo.
Cara mamma, non lasciarti frastornare da chi dice che questo era il disegno di Dio, così era destino che avvenisse, che i mister i di Dio sono insondabili.
Il mistero di Dio è insondabile perché è mistero di infinita misericordia, di amore senza fondo e senza fine. La volontà di Dio non è arcana. Semmai è inevidente: bisogna pregarci sopra per riceverne il senso. Dio non si allea mai con la morte. Dio non se ne serve mai. Dio lotta contro la morte. E quando la morte si è scagliata persino contro di Lui, in Cristo crocifisso, Dio si è ribellato alla morte: e l’ha vinta. Con la risurrezione.
Anche la morte di Aldo non è gradita a Dio, e Dio ne prende le distanze infinite della risurrezione che certamente, in Cristo Gesù, concede anche ad Aldo.
Rimane la sua morte come un dono, come un pegno e come un impegno per tutti noi: per noi sua famiglia, per la Chiesa monrealese sua famiglia. In essa, nella sua bruttura, dobbiamo sperare anche per noi, qui, in questa terra, ciò che ad Aldo è regalato nel cuore eterno di Dio: la bellezza della resurrezione, la bellezza del risorgere dal peccato e dalla morte ch’esso semina lì dove si annida. Stavamo, Aldo, fratello mio e mio maestro, lavorando insieme a un libro sulle icone del Risorto raffigurate in questa tua basilica cattedrale. E avevamo deciso di intitolarlo con la frase con cui l’evangelista Giovanni descrive l’effetto delle apparizioni del Risorto nell’esperienza dei suoi discepoli:
Gioirono al vedere il Signore. Ora anche tu Lo vedi in pienezza. Ed è questa la tua gioia eterna.


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