L’epidemia di colera del Giugno 1867 a Campofranco


Le pagine più drammatiche e dolorose della storia del piccolo paese: "Le vie son piene di morti; non ci sono medici... non c'è nemmeno da mangiare. .... Paura e sgomento tra la popolazione
A cura di Edmondo De Amicis

Ripubblichiamo il capitolo sul colera del giugno 1867 tratto da “La Vita militare, bozzetti“ di Edmondo De Amicis, noto scrittore ed ex ufficiale dell’Esercito (1846-1908), autore del libro “Cuore” (1886). La prima volta è stato pubblicato su La Voce di Campofranco del mese di Maggio 1972. Una copia del libro, edito nel 1914 dai Fratelli Treve secondo l’edizione definitiva del 1880, si trova esposto in una vetrina del Museo di Storia Locale di Campofranco.

“A Sutera, piccolo paese della provincia di Caltanissetta, c'era pelottone del 54° reggimento di fanteria comandato dal sottotenente Edoardo Cangiano.
La mattina del 22 giugno capita alla caserma un contadino tutto affannato e si presenta all'ufficiale.
Oh signor ufficiale! - esclama con voce supplichevole - venga lei per carità, ci soccorra lei... Qui presso, a Campofranco, è scoppiato il colèra; metà della gente è fuggita; le vie son piene di morti; non ci son medici, non ci son becchini, non c'è nemmeno da mangiare ... ; è una desolazione... quei che non morranno di coléra morranno di fame... Oh, venga -lei, venga subito lei! - Immantinente il pelottone è in armi, un avviso al Sindaco, un dispaccio al comando militare di Caltanissetta, un avvertimento al sergente che resta in paese con qualche soldato, e poi via a gran passi alla volta di Campofranco.
C'era da fare un miglio di strada o poco più per un viottolo serpeggiante attraverso i campi. Splendeva un sole ardentissimo. I soldati, grondanti sudore sin dal primo uscir dal paese, procedevano un dietro l'altro, in lunga fila, con un andare fra il passo e la corsa e l'orecchio intento al contadino, il quale con interrotte parole, dipingeva al Cangiano il triste spettacolo che gli avrebbe offerto il paese. Animo, animo, - questi gli rispondeva tratto tratto, - co' lamenti non si fa nulla, ora è tempo di fatti - E sempre più affrettava il passo e con esso I soldati, tanto che finirono col correre addirittura.
A un certo punto si cominciavano a veder da lontano uomini, donne e fanciulli errare incertamente pei campi, accennarsi l'un l'altro i soldati, soffermarsi, fuggire, correre avanti e indietro, chiamarsi ad alta voce, radunarsi o disperdersi, come gente inseguita e fuor di senno dalla paura. A misura che il drappello si avvicinava al villaggio, i fuggiaschi spesseggiavano, l'agitazione, il gridio crescevano; intere famiglie s'aggiravano per la campagna portandosi o traendosi dietro le masserizie; alcuni che avevano posto la roba in terra per riposarsi, alla vista de' soldati la ripigliavano in fretta e s'allontanavano volgendosi indietro paurosamente; altri cadevano spossati, altri si rialzavano; molti dei più lontani, rivolti verso i soldati, mandavano alte strida e agitavano le braccia in atto di maledire.
Ah! signor ufficiale! - esclamava il contadino, -:questo non è ancor nulla! Non importa, rispondeva il Cangiano; siamo preparati a tutto. - Apparvero le prime case del paese e l'imboccatura della strada. La gente che veniva fuggendo alla volta dei soldati, scortili appena, voltava le spalle e tornava in paese correndo e gridando, come se annunciasse un assalto di nemici, parte si gettava a destra e a sinistra pei campi. Sul primo entrare nella strada, si videro due cadaveri stesi in terra;davanti alla porta,di una casa disabitata. Appena entrati, un rapido sparir di gente, nelle case, un chiudersi impetuoso di porte di finestre, stride acute di donne, pianti di bambini, e in fondo alla strada un rapido affollarsi ed un rimescolarsi -rumoroso di popolo, poi una fuga generale.
Presto, - gridò il Cangiano, - dieci soldati girino attorno al paese e vadano a fermar quella gente. - Dieci soldati si spiccarono dal plotone e !Infilarono di corsa una via laterale. Gli altri,-tirarono innanzi. La gente impaurita continuava a rinchiudersi in furia nelle case. Non vogliamo far male a nessuno! - gridava ad alta voce il Cangiano; -siamo venuti ad aiutarvi siamo vostri amici; uscite, buona gente, uscite pure di casa!- Qualche porta e qualche finestra cominciava ad aprirsi; qualche persona, alle spalle dei soldati, cominciava ad uscire; nell'interno delle case s'udivano voci fioche di lamento; nella strada, dinanzi alle porte, giacevano prostesi molto infelici estenuati dalla fame e languenti, o presi dal morbo, immobili ed intorpiditi che parevano morti; qua e là masserizie abbandonate sugli usci o in mezzo alla via e ad ogni passo paglia sparsa e ciarpame. In ogni viuzza laterale che metteva nei campi uno o due o più cadaveri, quali coperti di paglia, quali di terra, quali di pochi cenci, fra cui apparivano le membra gonfie e nerastre; altri buttati a traverso le porte, metà dentro e metà fuori delle case.
Guardi, signor ufficiale, guardi! - esclamava lamentevolmente il contadino. - Provvederemo a tutto, rispondeva il Cangiano - coraggio! In quel punto, da folla dei fuggitivi ch'era stata respinta addietro da quei dieci soldati, veniva tumultuosamente verso l'ufficiale. - Schieratevi, - gridò questi voltandosi ai soldati, ed essi si fermarono e si schierarono a traverso la strada.
Il Cangiano aspettò la turba di pié fermo. Questa gli si arrestò dinanzi a una decina di passi, cessò di gridare, e stette guardando con fiero cipilio i soldati. Era tutta povera gente stracciata, facce pallide e ossute, occhi stralunati, fisionomie a cui i lunghi patimenti avevano -dato un'espressione come di stanchezza mortale e insieme di selvaggia fierezza.
Vogliamo uscire! - gridò una voce di mezzo alla folla.- E tutti ripeterono il grido, e la folla ondeggiò. - Perché volete uscire? - domandò il Cangiano con voce risoluta, ma temperata d'una tal quale dolcezza. - Bisogna restare; bisogna aiutarsi l'un l'altro; alle disgrazie comuni bisogna rimediare in comune; è un farle peggiori il pensare ciascuno solamente per sé e a nulla per, tutti... Noi siamo venuti a soccorrervi. - Vogliamo uscire! gridò minacciosamente la folla, e que' di dietro incalzando, i primi furon balzati innanzi due o tre passi. - Fatevi indietro, - disse con calma il Cangiano, e poi ad alta voce: - Ascoltate il mio consiglio; le donne e i fanciulli rientrino in casa; gli uomini restino per aiutare i soldati e seppellire i morti. Noi non vogliamo morire! - rispose imperiosamente la moltitudine, e levando un rumor con- fuso di grida, si rimescolò e ondeggiò un'altra volta come per pigliare lo slancio e gettarsi contro i soldati. - Lo volete? - tuonò allora l'ufficiale, - e sia! - E voltosi indietro gridò: - Pronti! - Il pelottone levò e spianò i fucili in atto di sparare, e la folla, gettando un grido di spavento, disparve in un attimo per le vie laterali. Gli altri dieci soldati si ricongiunsero ai primi. "
Qui ci vuol fermezza e coraggio, - -esclamò il Cangiano; bisogna sotterrar subito i morti; metà di voi vada in campagna e mi con-duca qui, a forza, quanti più uomini potrà, e gli altri vengano con me. - Metà del pelottone si diresse a rapidi passi fuor del paese. Gli altri cominciarono a correre di qua e di là, e entrar nelle case, a frugar dappertutto in cerca di zappe, di pale, di carrette, di panche, di assi su cui potere in qualche modo adagiare i morti per trasportarli fuor del paese.
In pochi minuti trovaron tutti qualcosa di servibile a quell'uopo, e parte cominciarono a raccogliere i cadaveri, parte, recatisi al cimitero vicino, si misero a scavare le fosse in gran fretta, gli altri presero a sgombrar le strade degli inciampi più incomodi e delle sozzure più schifose. Intanto il Cangiano, seguito da un soldato, andava in cerca d'una casa adatta all'uso di ospedale, fermando quanta gente del paese incontrava per via, consigliandoli, esortandoli, pregandoti, e nel passare sollecitava i soldati, dava ordini e suggerimenti, e porgeva conforti di parole affettuose. Trovò la casa, la fece sgomberare, si fece portar dentro i letti dalle case abbandonate, andò egli stesso con quattro soldati a battere alla porta di tutto gli abituri a domandare che gli lasciassero portar via gli infermi, che egli li avrebbe fatti assistere curare, e le lana famiglie sarebbero state soccorse. Rispondevano di no; egli offriva del denaro, pregava, minacciava; tutto era inutile. Allora i soldati entravano a forza nelle case, due di essi s'impossessavano dell'infermo, gli altri due tenevano indietro conte armi i parenti e i vicini.
Spesso bisognava levar di peso di sulle soglie delle case le donne che ne chiudevano l'accesso co' propri corpi; bisognava lottare con essi, di buttarle malamente trascinarle.
Dopo lunga fatica, un buon numero di infermi erano già alloggiati nel nuovo ospedale e due o tre soldati provvedevano ai loro bisogni aspettando l'arrivo di soccorsi da Caltanissetta, quando tornò in paese l'altra metà del pelottone tirando con sé di viva forza un flotta di contadini che aveva arrestati per la campagna.
Corse loro incontro il Cangiano, li sgombarti in vari gruppi, e li fece accompagnare ai vari lavori. I soldati nuovamente arrivati presero a lavorare anch'essi; in poco tempo i cadaveri che erano per le strade furono sepolti; le strade sgombre e ripulite; si continuò ad andare in volta a prendere gli infermi, e a poco a poco, ora con la persuasione, ora con la forza, si riuscì a radunare nell'ospedale la massima parte; da ogni lato era un continuo andirivieni, con chiamarsi, un affaccendarsi continuo di soldati.
Il popolo, che cominciava a radunarsi, li stava a guardar di lontano tra sospettoso e meravigliato; la gente sparsa per la campagna si veniva a poco a poco avvicinando al paese per vedere che cosa vi accadesse. I primi arrivati, non vedendo più i cadaveri davanti alle case, pigliavano animo e s'addentravano; molti cominciarono spontaneamente a pulir le strade di quanto vi rimaneva di immondo; altri a rientrar nelle case; alcuni ad affollarsi intorno al Cangiano, guardandolo attoniti, senza far parola, trattenuti ancora da un po’ di diffidenza; ma con l'animo preparato a rendere grazie e a pregare. E il Cangiano, pur non ristando dal correre di qua e di là per incoraggiare i soldati, si voltava tratto tratto alla gente che lo seguiva - Su via,andate ad aiutare quei poveri giovani che è tanto tempo che faticano per voi; andate a chiamare la gene ch'è fuggita in campagna; facciamo tutti qualche cosa; rimettiamo un po' d'ordine nel paese; il Sindaco tornerà; torneranno anche i signori e vi soccorreranno; torneranno i fornai, verranno i medici; presto arriveranno soccorsi da Caltanissetta; coraggio, via, lavoriamo tutti; a tutte le sventure c'è rimedio, rimedieremo anche e questa, siamo venuti qui pel vostro bene, persuadetevene, buona gente; che cosa avete a temer dai soldati? - Non siamo forse tutti dello stesso paese, non siamo i vostri fratelli, i vostri difensori? – A queste parole seguì un mormorio d'approvazione nella folla; qualcuno se ne staccò e corse in aiuto dei soldati; altri andarono verso la campagna; molti si sparsero per le strade; i restanti si fecero atorno all'ufficiale con lamenti e supplicazioni: - Siamo senza pane... abbiamo fame... Lo so, buona gente, lo so; ancora un po’ di pazienza e il pane arriverà; farò tutto quel che posso per voi; manderò i miei soldati a -pigliarvi da mangiare a Sutera; vi daremo tutto quello che abbiamo. Ma intanto bisogna lavorare, bisogna portar via i morti, curare i malati, aiutarsi fra tutti. –
Allora la gente ringraziava, poi ricominciava a pregare, a lamentarsi, a chieder pane. A un- tratto arrivò correndo un soldato e parlò nel- l'orecchio al Cangiano. Un assai dura prova di carità e di fortezza restava a farsi! Il Cangiano avvisò saggiamente che si dovesse fare ogni cosa di nascosto alla popolazione, ordinò al presenti di andare ad aspettare i soccorsi sulla strada, che mena a Caltanissetta, chiamò quindici soldati coi fucili, fece venire innanzi venti contadini con le zappe, e s'avviò con essi verso un'estremità del villaggio.
Là vi era una piccola chiesa abbandonata. Si fermarono dinanzi alla porta, la tentarono; era chiusa. L'atterrarono e fecero tutti insieme un passo indietro levando un grido di ribrezzo. In mezzo a quella chiesa, poco più ampia d'una sala ordinaria, c'era un mucchio di venti cadaveri imputriditi. - Avanti! - gridò l'ufficiale. I soldati si gettarono dentro alla chiesa; i contadini dettero indietro. - Avanti! - gridò un'altra volta il Cangiano. Non si mossero. Egli fece un passo avanti, essi si diedero alla fuga, i soldati si slanciarono loro alle spalle, li ebbero in un momento raggiunti e afferrati. - Trascinatemi qui codesti poltroni! - gridava sulla porta della chiesa il Cangiano. I soldati li ricondussero a gran stento traendoli per le braccia, cacciandoli innanzi a spintoni minacciandoli colle armi.
Ma al momento di entrare, quelli presero a resistere con maggior forza, puntando i piedi come cavalli restii, dibattendosi e urlando disperatamente, quasi li volessero trarre al supplizio. - Fuori le baionette! - gridò sdegnosamente l'ufficiale afferrandole uno per la vita e buttandolo in mezzo alla chiesa; i soldati snudarono le, baionette e le alzarono in atto di ferire. - Avanti, poltroni, o vele cacceremo nelle reni! - Voi volete farci morire! - i contadini gridavano. - Moriremo tutti! rispondevano fieramente i soldati; ma bisogna entrare! - E con estremo sforzo li spinsero dentro tutti e venti. Qui cominciò un orribile lavoro. I cadaveri si trovavano in uno stato di completo sfacimento, eran tutti un flosciume senza forma da non potersi nemmeno sollevare da terra. Bisognò rompere le panche della chiesa, ficcare due assicelle sotto ogni morto, e afferrandole per le estremità, alzare così il fetido peso, colle braccia tese e la faccia rivolta da un lato, ché l'aspetto di quei corpi era tale da non potervi fermare lo sguardo. Ad ogni crollo che ricevessero, colava dalle orecchie e dalle bocche e si spandeva per quei visi un verde marciume, e le nere carni delle braccia e delle gambe penzolanti pareva si volessero staccare dalle ossa e dissolversi.
Il Cangiano mandò quattro soldati a raccoglier il legname nelle poche case abbandonate ch'eran là presso. Questi, non trovandovi altro, presero tavole, seggiole, imposte, tutto quanto si potesse bruciare, e ammonticchiarono ogni cosa nel mezzo d'un campo poco lontano dalla chiesa.
I cadaveri furono ad uno ad uno portati fuori e rovesciati su quel mucchio; vi si appiccò il fuoco ed ogni cosa bruciò.
In Campofranco non restava più un cadavere. Tra sepolti e bruciati se n'eran levati di mezzo più di sessanta. Viste guizzare le prime fiamme, il Cangiano tornò, nel centro del paese, dove riprese e proseguì infaticabilmente la santa opera di prima, finché arrivò da Caltanissetta un capitano della piazza con buona provvigione di alimenti, di medicine e di denaro, e con questi ripercorse, casa per casa, tutto Campofranco, beneficiando i poveri, soccorrendo gli infermi, rassicurando i paurosi, rimettendo in tutti gli animi un po’ di speranza e di pace. In breve tempo rientrarono tutti i fuggiaschi, il municipio si riordinò, ognuno riprese le sue occupazioni, il paese mutò aspetto, e il Cangiano e i suoi soldati ritornarono a Sutera, accompagnati dalla benedizione di tutti.
Anche a Sutera infuriava il morbo, e anche là il Cangiano fece veri miracoli di carità e di coraggio.
L'undici di agosto la Giunta municipale, della città lo acclamò unanimemente benemerito del paese, e gli espresse la gratitudine della cittadinanza con una lettera piena di entusiasmo e di affetto.
Possano queste povere pagine far sì che nel cuor dei molti, come nel mio, suoni caro e reverito il suo nome.”


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